lunedì 13 giugno 2011
27 Maggio
E' passato un po' di tempo dalla giornata di studio del 27 maggio, un po' ma non troppo, quel po' che fa ricordo, che induce a osservare ciò che ne è rimasto, quel po' che rende fruibile il dono e consapevole il nutrimento. Ho voglia di ricordare quella giornata, e non darne semplicemente notizia: quel venerdì è successo qualcosa che è passato per cuore ed ha fatto evento, ha fatto venire fuori emozioni, testimonianze, condivisioni, ed è stato incontro. Succede, ma non così spesso. Ho avuto la sensazione che in quel pomeriggio la presenza di ognuno sia stata una sorta di dichiarazione della propria “intenzione d'esistenza”, del suo modo di stare al mondo, ed i contributi dei relatori e degli interventi del pubblico siano state testimonianze di azioni che mettevano in pratica quell'intenzione. Come dire: funziona!
Oltre al piacere di essere “insieme”, mi son portata via anche quattro parole scelte come ciliege dall'albero dagli interventi: bellezza, emozioni estetiche e rossetto.
Solo quattro parole che in me fanno rima con salvezza. Cos'è? Non so, ma so che c'è, ed è fatta di quelle parole, l'ho capito un giorno in cui l'esperienza della bellezza è stata dirompente, e quel giorno dissi a me stessa: finché sarò in grado di provare queste emozioni sarò salva. Da cosa non so, ma salva. Salva dalla disperazione forse, salva da un vivere senza speranza, salva perché il cervello produce endorfine, salva perché la bellezza suscita quelle emozioni estetiche, che forse non dimorano nella pancia o nel fegato, ma altrove. La bellezza mette in moto l'organo della gioia (non so quale sia) e la gioia è oltre il benessere, direi che ne prescinde.
E la bellezza è speranza, forse. Ma speranza è certo quell'intenzione che nobilita la cura non la guarigione, quel motore che innesca la miccia dell'azione verso un progetto esistenziale, quel progetto che merita rispetto e sorriso, che ha a che fare col sacro, per questo la speranza merita … il rossetto!
Mariella Sassone
mercoledì 25 maggio 2011
N.O.F.
Sono una materia vivente le immagini, hanno una temperatura e possono morire anche due volte. “N.O.F”
Ricordando Franco Basaglia...
180 è la legge del 13 Maggio 1978 “ Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, detta legge Basaglia grazie alla quale si impose la chiusura dei manicomi.
180 è anche la lunghezza del muro del manicomio di Volterra in cui Oreste Ferdinando Nannetti, astronautico, ingegnere minerario ovvero n.o.f. 4, come lui stesso si descrive, ha inciso con la fibbia del panciotto nei lunghi anni di detenzione.
Un libro di pietra costruito tracciando prima i contorni delle pagine e riempiendole poi di segni “10% deceduti per percosse magnetico-catodiche, 40% per malattie trasmesse, 50% per odio, mancanza di amore e affetto”.
Così N.O.F descriveva il suo mondo. Una realtà fatta di pianeti ed elementi chimici, di eventi del mondo e di guerre, di città, disegni, schemi, numeri e nomi.
Claudia Papini
lunedì 23 maggio 2011
La musica sveglia il tempo: la West-East Divan Orchestra
È composta di ragazzi tra i 25 e i 30 anni, di livello professionale altissimo, sta girando per i più grandi teatri europei ed è passata anche a Roma. La sua peculiarità, che la rende unica al mondo, è che questa orchestra è formata per il quaranta per cento da musicisti provenienti dal mondo arabo, per un altro quaranta per cento da israeliani e per il venti da musicisti spagnoli dell’Andalusia, luogo che supporta questa orchestra, essendo l’Andalusia una terra in cui in passato arabi e ebrei convivevano in piena armonia.
Eh sì, la forza e il messaggio importante che questa orchestra vuol portare è proprio di tipo politico. Come illustra il suo fondatore e direttore, Daniel Baremboin:” E’ un orchestra mito, un’utopia incarnata, uno Stato binazionale, in nuce, che può far comprendere la potenza sovversiva della musica”. Sarà per questo che quando l’orchestra ha suonato a Roma l’Auditorium Parco della Musica era stracolmo di gente, e il presidente Napolitano ha presenziato l’incontro. Suoni magici, la forza travolgente di una musica suonata da giovani: biondi, scuri di pelle, tratti somatici affascinanti e diversi che sotto la direzione potente di Baremboin ‘coloravano’ la sala di emozioni diverse, tutte culminanti verso un senso di unità.
Perché la musica può portare questo messaggio?
Barenboim, che incarna in sé l’ideale che vuol comunicare ( è ebreo di origini russe, nato a Buenos Aires e cresciuto in Israele, ha la doppia cittadinanza), traduce con parole quello che vuol trasmettere con la musica:” E’ un’espressione che entra bei corpi nel modo più diretto e primordiale. L’orecchio è sempre aperto, la musica è fisicità: è questo a imprimerle la sua forza tremenda. Inoltre l’orchestra è una scuola d’ascolto dove nessuno può prevaricare l’altro. Il senso della musica è diventare uno”. A chi gli chiede se ci sono scontri di opinioni politiche all’interno dell’orchestra, Barenboim risponde di sì, eccome! Ed anche molto accesi, drammatici. Ma dopo che si è suonato sei , sette ore insieme, cercando di ottenere gli stessi effetti, un vibrato, una dinamica, un dialogo tra le parti, si stabilisce una relazione inevitabilmente diversa, che supera le opinioni, il pensiero individuale e lo trascende verso qualcosa di più importante.
Come non risuonare con queste parole, con questo messaggio che porta l’arte, la musica in un contesto sociale e politico, a far incontrare le persone attraverso le emozioni che possono nascere quando la parola tace?
Silvia Ragni
venerdì 15 aprile 2011
Il discorso del Re
Guardando e ascoltando queste immagini, mi domando che cosa suscitano in me?
E cosa e come, le stesse immagini, come altre del film, richiamano il linguaggio arte terapeutico.
Le tecniche dell’eccentrico logopedista?
L’eccentrico logopedista?
Il setting poco ortodosso?
La cultura e i costumi del tempo? La storia in sé ? Il problema della balbuzie?
La risoluzione ?
O è la relazione fra i due protagonisti ?
Il dar voce alla balbuzie attraverso l’ascolto e attraverso l’ascolto dare voce alle parole?
Parole non dette… confuse, perdute, e poi ritrovate, ascoltate, espresse, come le tracce della propria storia che diventano con e per mezzo della relazione narrazione di sé stessi.
Più che il discorso - del re mi piace assaporare il discorso - con il re. Personale, intimo.. Non so perché ma mi vengono in mente due favole: “ Il principe ranocchio” e “ Il brutto anatroccolo”
Forse per il processo trasformativo?
Anna Maria Acocella
domenica 6 marzo 2011
L’albero dei mille anni di Pietro Calabrese
ALL’MPROVVISO UN CANCRO. LA VITA ALL’IMPROVVISO
La storia di Pietro è la storia del coraggio di raccontarsi e di farlo anche nel dolore, anche negli aspetti più difficili del suo percorso e forse per molti da nascondere o tenere per sè. Esprime tutti i lati dell’esistenza, come fosse una necessità la sua, di poter prendere un piccolo distacco da ciò che gli sta accadendo ma allo stesso tempo dirci con forza quanto è importante vivere intensamente. Dal momento della scoperta della sua grave malattia, Pietro trova un modo per comunicare al mondo ciò che lo tormenta: Gino. Un personaggio inventato, attraverso il quale può ogni settimana, dalle pagine del settimanale per cui scrive, aggiornare il suo percorso.
“L’altro giorno un mio caro amico è andato dal medico per fare un controllo di routine. È un tipo sano, atletico, che fa sport, che non fuma, cammina almeno un’ora al giorno, due volte alla settimana si fa diciotto buche di golf, per tre giorni alla settimana nuova come un pesce: 80 vasche nella piscina olimpica […] Il medico gli ha fatto la lasta al torace e tutto, all’improvviso, è cambiato.”
Pietro nel suo libro ci descrive l’incontro con il suo personaggio, trasmettendoci tutta l’urgenza di poter dire ciò che gli sta succedendo e di poterlo dire al suo mondo, quello dei lettori, e nel modo a lui familiare: la parola scritta.
“E all’improvvisto arriva Gino. Irrompe senza ritegno né rispetto in questa storia: come il riccio a cui offri temporanea ospitalità e subito si allarga e si ricava uno spazio sempre più grande. Sgombra l’ospite per diventare lui il protagonista e il padrone di casa. Io lo guardo, ammutolisco, mi arrabbio, lo giudico un individuo senza ritegno, ma a poco a poco comincio a volergli bene. Perché il suo spazio dimostra di meritarlo.
Gino per Pietro diventa una possibilità di espressione. Attraverso un personaggio inventato che vive e soffre attraverso le pagine della rubrica, anche Pietro può permettersi di raccontare la sua vita e la sua sofferenza nella malattia.
“È così che avviene la trasformazione. Il cambio è plateale per tutti: all’esterno io divento Gino, e lui diventa me. Io mi annullo e lui giganteggia. Ma mi protegge, para i colpi, fa la figura dell’eroe e soffre al mio posto. O almeno così pensano gli altri. Un legame sempre più particolare, ormai indissolubile. Però, e questo gli va riconosciuto, non è mai stato un legame malato. Gino, che ha preso il mio posto nell’immaginario collettivo, è l’individuo più sano di tutta questa storia.
Con stupore si accorge che il suo racconto ha un’eco di lettori immensa. Il mondo di chi soffre e di chi ha intorno a sé la sofferenza, ma non solo anche di chi semplicemente partecipa a questo alla storia di Gino. Sono persone che iniziano a scrivergli, una grande comunità virtuale che si affianca a questo personaggio, consigliandolo e confortandolo, pur non conoscendolo.
Il racconto allora, rappresenta un luogo e uno spazio in cui quello che gli sta succedendo diventa più reale perché partecipato, condiviso, scritto e stampato.
Affronta la malattia, la sua lotta inesorabile per sconfiggerla, e quasi alla fine del percorso la comprensione e accettazione. Si dice fortunato di aver capito l’importanza del fermarsi e dell’accogliere le piccole cose della vita.
“Mi era arrivato addosso all’improvviso quel treno in corsa del cancro assassino. Mi aveva fatto stramazzare perché io mi fermassi. Perché io riflettessi. Perché io capissi. Perché riprendessi il filo quasi spezzato della mia vita e ritrovassi lo scopo e il perché dell’esistenza. Perché ripensassi ai miei giorni marginali, che erano stati la maggioranza di quelli vissuti, e non li rivivessi mai più, pochi o molti che fossero quelli che mi restavano. Perché finalmente realizzassi che il valore della vita e non è nella vita stessa – magari ce ne saranno altre di vite in altri mondi -, il valore supremo è dentro le piccole cose che compongono il quotidiano, il qui e ora, alle quali non diamo mai importanza, o ne diamo troppo poca. Perché sprechiamo il valore delle cose che contano veramente. Perché ci arrabbiamo e ci perdiamo dietro inutili discussioni, fragorose polemiche, patibolari decisioni. Perché pensiamo che il bello e il buono sono sempre altrove, lontano da noi. Invece sono qui, davanti a noi, ai nostri piedi, e non ce ne accorgiamo finendo col calpestarli e ucciderli. Perché il buono delle cose non è mai così nascosto da non riuscire a scorgerlo, a vederlo, ad assaporarlo. Perché è bella la vita, bello il sole e il freddo dell’inverno, bellissima una giornata di primavera e dolcemente bello il venticello leggero che l’accompagna. Ma chi si ferma a riflettere su queste banalità quotidiane?”
Un esempio, questo libro, di come anche in una malattia, attraverso la scrittura e la narrazione si possa trovare una strada per elaborare ciò che ci succede, per raccontarci ed per esprimere le nostre emozioni e trovare una via per attraversarle.
Gaia Miletic
La storia di Pietro è la storia del coraggio di raccontarsi e di farlo anche nel dolore, anche negli aspetti più difficili del suo percorso e forse per molti da nascondere o tenere per sè. Esprime tutti i lati dell’esistenza, come fosse una necessità la sua, di poter prendere un piccolo distacco da ciò che gli sta accadendo ma allo stesso tempo dirci con forza quanto è importante vivere intensamente. Dal momento della scoperta della sua grave malattia, Pietro trova un modo per comunicare al mondo ciò che lo tormenta: Gino. Un personaggio inventato, attraverso il quale può ogni settimana, dalle pagine del settimanale per cui scrive, aggiornare il suo percorso.
“L’altro giorno un mio caro amico è andato dal medico per fare un controllo di routine. È un tipo sano, atletico, che fa sport, che non fuma, cammina almeno un’ora al giorno, due volte alla settimana si fa diciotto buche di golf, per tre giorni alla settimana nuova come un pesce: 80 vasche nella piscina olimpica […] Il medico gli ha fatto la lasta al torace e tutto, all’improvviso, è cambiato.”
Pietro nel suo libro ci descrive l’incontro con il suo personaggio, trasmettendoci tutta l’urgenza di poter dire ciò che gli sta succedendo e di poterlo dire al suo mondo, quello dei lettori, e nel modo a lui familiare: la parola scritta.
“E all’improvvisto arriva Gino. Irrompe senza ritegno né rispetto in questa storia: come il riccio a cui offri temporanea ospitalità e subito si allarga e si ricava uno spazio sempre più grande. Sgombra l’ospite per diventare lui il protagonista e il padrone di casa. Io lo guardo, ammutolisco, mi arrabbio, lo giudico un individuo senza ritegno, ma a poco a poco comincio a volergli bene. Perché il suo spazio dimostra di meritarlo.
Gino per Pietro diventa una possibilità di espressione. Attraverso un personaggio inventato che vive e soffre attraverso le pagine della rubrica, anche Pietro può permettersi di raccontare la sua vita e la sua sofferenza nella malattia.
“È così che avviene la trasformazione. Il cambio è plateale per tutti: all’esterno io divento Gino, e lui diventa me. Io mi annullo e lui giganteggia. Ma mi protegge, para i colpi, fa la figura dell’eroe e soffre al mio posto. O almeno così pensano gli altri. Un legame sempre più particolare, ormai indissolubile. Però, e questo gli va riconosciuto, non è mai stato un legame malato. Gino, che ha preso il mio posto nell’immaginario collettivo, è l’individuo più sano di tutta questa storia.
Con stupore si accorge che il suo racconto ha un’eco di lettori immensa. Il mondo di chi soffre e di chi ha intorno a sé la sofferenza, ma non solo anche di chi semplicemente partecipa a questo alla storia di Gino. Sono persone che iniziano a scrivergli, una grande comunità virtuale che si affianca a questo personaggio, consigliandolo e confortandolo, pur non conoscendolo.
Il racconto allora, rappresenta un luogo e uno spazio in cui quello che gli sta succedendo diventa più reale perché partecipato, condiviso, scritto e stampato.
Affronta la malattia, la sua lotta inesorabile per sconfiggerla, e quasi alla fine del percorso la comprensione e accettazione. Si dice fortunato di aver capito l’importanza del fermarsi e dell’accogliere le piccole cose della vita.
“Mi era arrivato addosso all’improvviso quel treno in corsa del cancro assassino. Mi aveva fatto stramazzare perché io mi fermassi. Perché io riflettessi. Perché io capissi. Perché riprendessi il filo quasi spezzato della mia vita e ritrovassi lo scopo e il perché dell’esistenza. Perché ripensassi ai miei giorni marginali, che erano stati la maggioranza di quelli vissuti, e non li rivivessi mai più, pochi o molti che fossero quelli che mi restavano. Perché finalmente realizzassi che il valore della vita e non è nella vita stessa – magari ce ne saranno altre di vite in altri mondi -, il valore supremo è dentro le piccole cose che compongono il quotidiano, il qui e ora, alle quali non diamo mai importanza, o ne diamo troppo poca. Perché sprechiamo il valore delle cose che contano veramente. Perché ci arrabbiamo e ci perdiamo dietro inutili discussioni, fragorose polemiche, patibolari decisioni. Perché pensiamo che il bello e il buono sono sempre altrove, lontano da noi. Invece sono qui, davanti a noi, ai nostri piedi, e non ce ne accorgiamo finendo col calpestarli e ucciderli. Perché il buono delle cose non è mai così nascosto da non riuscire a scorgerlo, a vederlo, ad assaporarlo. Perché è bella la vita, bello il sole e il freddo dell’inverno, bellissima una giornata di primavera e dolcemente bello il venticello leggero che l’accompagna. Ma chi si ferma a riflettere su queste banalità quotidiane?”
Un esempio, questo libro, di come anche in una malattia, attraverso la scrittura e la narrazione si possa trovare una strada per elaborare ciò che ci succede, per raccontarci ed per esprimere le nostre emozioni e trovare una via per attraversarle.
Gaia Miletic
mercoledì 9 febbraio 2011
Foto con l’anima
E’ una serata noiosa, mi riposo davanti alla televisione facendo zapping tra la miriade di nuovi canali digitali e mi imbatto in un documentario su Annie Leibovitz. La fotografa del Rock, quella che ha fotografato i più grandi gruppi della storia e che ha pubblicato le migliori copertine della Rivista Rollin’Stones. Avevo già visto qualche sua foto. Le avevo trovate bellissime. Mi interesso al documentario … Decine di foto pazzesche, foto narrative di backstage che catturano con uno scatto uno stato psichico, un’epoca umana, più che un linguaggio musicale. Ma ecco una foto diversa: John Lennon nudo sul letto, abbracciato a Yoko Ono, vestita di nero. Si racconta che questo scatto sia stato molto voluto da Annie, la fotografa, ma possibile solo grazie alla sensibilità e al feeling di fiducia creatosi durante il lavoro, grazie al quale è riuscita a strappare questa foto con il nudo. Guardandola penso che sia una bella foto. Mi piace la fragilità che esprime. Ma poi una notizia scioccante: appare in video Yoko Ono che dice solo poche parole: “E 4 ore dopo lo scatto, il destino bussò alla nostra porta”. Non era il destino, era un assassino. Che come ben sappiamo uccise brutalmente John Lennon. Sapere questo mi fa vedere con occhi diversi la fotografia, il tutto mi sembra ora una drammatica, profetica costruzione, i vestiti neri del lutto di lei, la fragile nudità di lui. Nel lavoro arte terapeutico con le fotografie a volte può essere interessante indagare o immaginare il prima e il dopo lo scatto, la fotografia può assumere una dimensione narrativa inedita. La foto, scatto di un momento, immagine bidimensionale, assume uno spessore legato al tempo. Al tempo di dopo, al tempo dell’uccisione, che lega i due momenti (quello dello scatto e quello della morte) in modo indissolubile. Mi piace pensare, come credono gli indios, che una foto possa rubare l’anima. Mi piace pensare che per qualche insondabile motivo, la fotografa sapesse senza sapere, che tutti e tre sapessero senza sapere, che questo scatto profetico abbia portato via l’anima di John Lennon prima del suo assassino, in modo dolce, senza paura.
Silvia Adiutori
sabato 11 dicembre 2010
Le Trame dello Sguardo
Sarà capitato a molti, se non a tutti, di doversi sottoporre al supplizio di andare a convegni inutili, sopraffatti dal senso del dovere o dalla voglia di incontrare persone difficilmente reperibili in altro modo e di dover, quindi, sopportare quel senso di alienamento dalle parole pronunciate senza enfasi dal palco, lottare disperatamente contro una sconfortante sonnolenza e spanzientirsi di fronte a inevitabili eccessi di narcisismi vari ed eventuali.
beh, senza dubbio non è stato questo il caso della giornata di studio dal titolo "Le trame dello sguardo" che si è svolta presso la Pontificia Università Antonianum il 6 novembre scorso. Non tanto per il titolo, che già di per sè evocava immagini piene di echi affascinanti, quanto per la presenza coinvolta di ospiti che sembravano voler dire e condividere contenuti interessanti in una forma non edulcorata dall'accademia, e di un pubblico partecipe ed evidentemente non condizionato dall'obbligo della presenza da ECM.
Parole, immagini, suoni, discussioni, teorie ed esperienze pratiche si sono infatti alternate e amalgamate armoniosamente in una giornata di studio vero e proprio che della ritualità e della celebrazione ha fatto per fortuna a meno. Suggestive e stimolanti le riflessioni di Paolo Quattrini sul senso della narrazione prodotto da un "ordito" e da una "trama", richiami spesso trascurati nei modi di raccontare storie personali, sia per i professionisti che per i clienti di essi. Appassionata e ricca di aneddoti la ricerca sullo "sguardo" fatta dal saggio Bruno Callieri da un punto di vista fenomenologico psichiatrico. Innovativa ed efficace l'organizzazione logica ed estetica di Oliviero Rossi che, di questo seminario, è stato sicuramente anche il pigmalione e il fautore. Questo per quanto riguarda la mattina.
Nel pomeriggio, invece, i contributi di Fabio Piccini e di Sabine Korth hanno introdotto il pubblico presente ad una percezione diretta delle immagini e dei vissuti che portano nelle loro esperienze professionali di uso delle fotografie nella relazione d'aiuto, suggestioni visive interessanti che hanno fatto da prologo per l'esperienza successiva proposta invece da Oliviero Rossi sul sogno.
E' stato sicuramente un approfondimento sulla tecnica e sulla tecnologia che fa dell'approccio a mediazione artistica il fulcro della relazione d'aiuto, ma non per questo ha veicolato freddezza dei toni narrativi o retorica di contenuti clinici. Il dato principale, in un'ottica di scambio di prospettive tra professionisti, sia sul palco che nel pubblico, è stato sicuramente l'esperienza diretta e la percezione del vissuto personale all'interno di pratiche possibili sull'uso dell'immagine, sia essa strumento tecnico o prodotto finito di una relazione d'aiuto orientata alla ricerca della storia personale.
Una giornata interessante, insomma…
Pierluca Santoro
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