sabato 11 dicembre 2010

Le Trame dello Sguardo


Sarà capitato a molti, se non a tutti, di doversi sottoporre al supplizio di andare a convegni inutili, sopraffatti dal senso del dovere o dalla voglia di incontrare persone difficilmente reperibili in altro modo e di dover, quindi, sopportare quel senso di alienamento dalle parole pronunciate senza enfasi dal palco, lottare disperatamente contro una sconfortante sonnolenza e spanzientirsi di fronte a inevitabili eccessi di narcisismi vari ed eventuali.
beh, senza dubbio non è stato questo il caso della giornata di studio dal titolo "Le trame dello sguardo" che si è svolta presso la Pontificia Università Antonianum il 6 novembre scorso. Non tanto per il titolo, che già di per sè evocava immagini piene di echi affascinanti, quanto per la presenza coinvolta di ospiti che sembravano voler dire e condividere contenuti interessanti in una forma non edulcorata dall'accademia, e di un pubblico partecipe ed evidentemente non condizionato dall'obbligo della presenza da ECM.
Parole, immagini, suoni, discussioni, teorie ed esperienze pratiche si sono infatti alternate e amalgamate armoniosamente in una giornata di studio vero e proprio che della ritualità e della celebrazione ha fatto per fortuna a meno. Suggestive e stimolanti le riflessioni di Paolo Quattrini sul senso della narrazione prodotto da un "ordito" e da una "trama", richiami spesso trascurati nei modi di raccontare storie personali, sia per i professionisti che per i clienti di essi. Appassionata e ricca di aneddoti la ricerca sullo "sguardo" fatta dal saggio Bruno Callieri da un punto di vista fenomenologico psichiatrico. Innovativa ed efficace l'organizzazione logica ed estetica di Oliviero Rossi che, di questo seminario, è stato sicuramente anche il pigmalione e il fautore. Questo per quanto riguarda la mattina.
Nel pomeriggio, invece, i contributi di Fabio Piccini e di Sabine Korth hanno introdotto il pubblico presente ad una percezione diretta delle immagini e dei vissuti che portano nelle loro esperienze professionali di uso delle fotografie nella relazione d'aiuto, suggestioni visive interessanti che hanno fatto da prologo per l'esperienza successiva proposta invece da Oliviero Rossi sul sogno.
E' stato sicuramente un approfondimento sulla tecnica e sulla tecnologia che fa dell'approccio a mediazione artistica il fulcro della relazione d'aiuto, ma non per questo ha veicolato freddezza dei toni narrativi o retorica di contenuti clinici. Il dato principale, in un'ottica di scambio di prospettive tra professionisti, sia sul palco che nel pubblico, è stato sicuramente l'esperienza diretta e la percezione del vissuto personale all'interno di pratiche possibili sull'uso dell'immagine, sia essa strumento tecnico o prodotto finito di una relazione d'aiuto orientata alla ricerca della storia personale.
Una giornata interessante, insomma…

Pierluca Santoro

giovedì 11 novembre 2010

VIENIVIACONME…

L’avete visto, lunedì 8 novembre su Rai 3 ?
A me personalmente, parlando di mediatori artistici, come siamo soliti fare, mi è sembrato un ottimo, emozionante e commuovente contenitore e divulgatore di segni, parole, note, immagini, narrazione, interpretazione e rappresentazione dove, l’incontro con l’altro, diventa processo creativo e dove, il processo creativo, diventa: arte!
E, se l’arte, questa forma d’arte, diventa cultura, cioè disponibilità ad accogliere, vedere, sentire, fare e ri-fare, incontrare, comprendere, trasformare, io ho ottimi motivi e un grande piacere a restare!
Nella relazione con l’altro, mi piace pensare che posso aiutarlo a scoprire dentro di sé, come possono essere sconfitti i Draghi!
Nella relazione con me stessa mi piace pensare di poter ritrovare, tutte le volte in cui si presenta l’occasione, dignità, rispetto, bellezza ed emozione.
"non è vero che le favole insegnano ai bambini che esistono i draghi, perché i bambini lo sanno già benissimo. Le favole insegnano ai bambini,  che i draghi possono essere sconfitti..."
( citato da R. Benigni )
Grazie !
Anna Maria

venerdì 5 novembre 2010

CRISI E CREATIVITA'


Non ridete, ho fatto un anno di spada giapponese, esperienza fondamentale della mia vita per il semplice fatto che nel momento in cui mettevo la mano sull’elsa della spada per sguainarla (tranquilli la spada era di legno) sapevo già che comunque sarebbero andate le cose io sarei morta.
Che c’entra con la creatività direte. C’entra e come. Prendo la penna in mano (ormai è una metafora, visto che scrivo al computer) e so già che scriverò una cazzata. Ma non desisto, ci provo Ci provo comunque, rileggo, rileggo le parole scritte e non riconosco più da dove le ho scritte, da quale parte di me vengono, sembrano false, luoghi comuni, banalità. Continuano ad uscire da un dove che non è più, ma è quello che so fare, l’urgenza di allora diventa sclerosi di oggi. Angoscia sottile, forse semplicemente ansia. Ci riprovo. Riprovo a proferir parole per cercare un altro da dove, come a cercare un parte di una nuova me sensibile, un risveglio che sento e che non trovo. Aspettare il senso e la sensazione, forse anche un dolore nuovo. E’ la pratica che cerco, è la pratica che invoco. La pratica dell’arte, della mia arte, e mi rassegno all’esperienza, di non scrivere, ma descrivere, senza più cercare, senza più aspettare lo svelamento di un senso. Arriverà, la scrittura non tradisce.

Mariella Sassone

mercoledì 6 ottobre 2010

LIBRI "MEDIATORI": LIBRI PER RAGAZZI E DISABILITA'

Curiosando tra gli scaffali della sempre fornita libreria Giannino Stoppani, in Piazza Maggiore a Bologna, abbiamo notato un libro dal titolo "La differenza non è una sottrazione" scritto da Silvana Sola e Marcella Terrusi e edito da Lapis.
Il testo fa parte dei progetti di Ibby Italia, sezione nazionale di un storica istituzione mondiale dedicata alla tutela e alla diffusione del libro per ragazzi di qualità, che trova spazio all’interno della Biblioteca Sala Borsa Ragazzi in Bologna, nella stessa piazza Maggiore.
"Ibby Italia ha sollecitato docenti universitari, ricercatori, studiosi, scrittori, illustratori, editori, librai, bibliotecari e li ha invitati a una riflessione collettiva sul tema del libro per ragazzi in relazione alla disabilità. Sindrome di down, dislessia, sindrome di Asperger, cecità, sordità, difficoltà di deambulazione entrano nei libri per ragazzi, nei racconti, nei saggi, nelle interviste. Il volume non offre risposte certe, ma suggerisce percorsi di conoscenza e di senso, occasioni e esperienze incentrate sul riconoscimento del ruolo insostituibile del libro come strumento privilegiato di relazione tra adulti e bambini."
Silvana Sola, Marcella Terrusi, La differenza non è una sottrazione, Lapis Edizioni Roma 2009.
Ci è sembrata una guida utile per chi volesse avvicinarsi alle connessioni tra editoria e disabilità, un contenitore di interventi che descrivono una bibliografia specifica su questo tema con una ampia sezione internazionale, qui troviamo le voci di esperti e di autori che a diverso titolo si interrogano su questo territorio ancora misterioso.

Arianna Callegaro
Luca Mazza

http://www.magazine.unibo.it/Magazine/Eventi/2009/11/18/La_differenza.htm
http://www.bibliotecasalaborsa.it/ragazzi/ibby/
http://www.gianninostoppani.it/
http://www.ibby.org/

giovedì 2 settembre 2010

LA MAGIA DEL BURATTINAIO


Non è facile spiegare, ma anche far capire a me stesso, cosa succede ogni volta che indosso un burattino a mano per iniziare un intervento ludico-pedagogico con alcuni ospiti disabili del centro A.n.f.f.a.s. “ Nuova Casa Serena” di Trento presso il quale lavoro. In un attimo sembra che il tempo si fermi, che l’orologio abbia interrotto il suo ritmo incalzante, che la realtà abbia subito una sospensione per lasciare spazio ad un’altra dimensione fatta di parole, movimenti, magia ed immaginazione, una dimensione sicuramente inusuale, ma non per questo meno vera, meno autentica. Guardo i burattini infilati nella mia mano e ogni volta vengo colto da stupore, da meraviglia: quei pezzi di plastica e stoffa che fino ad un attimo prima giacevano immobili e inerti su una piccola tavola ora prendono a danzare in aria, iniziano a parlare, a ridere, a fare piroette e a incantare. E’ come se in un attimo sbocciasse la vita, laddove prima c’era solo silenzio ed immobilità.
E ancor maggior stupore mi prende quando mi accorgo che la loro consistenza, la loro identità, il loro esserci non è una cosa a sé stante, ma è frutto della mia anima, del mio spirito vitale: sono i miei sogni, i miei ideali, la mia energia che colorano e danno senso a quella loro breve ed effimera vita. Una vita che sembra essere spuntata dal nulla ma che in realtà era già presente perché intrecciata con un’altra esistenza: è bastata un po’ di creatività, unita a magia ed immaginazione, per creare tutto ciò, rendere cioè vivi l’inanimato per creare uno spazio fuori dal tempo dove emozioni e parole, sogni ed attese, sguardi e sorrisi si uniscono in una sinergia dove i confini tra realtà e fantasia sfumano e si fondono per regalare parti archetipiche di sé, raggi di vita spesso sepolti ed inesplorati, ma ricchi di genuità ed autenticità.
E quando l’intervento finisce, quando l’incanto si spezza e la realtà con i suoi tempi, con i suoi ritmi, con i suoi rumori riprende il sopravvento, quando l’orologio riprende il suo inesorabile giro i burattini sembrano cadere in un sonno, simili al personaggio fiabesco di Biancaneve che attende il principe azzurro che da un paese lontano arrivi per ridestarla alla vita. In quel momento sento di aver lasciato con loro un po’ della mia anima, un pezzo del mio cuore, ma sento anche di aver regalato un po’ di me stesso per creare stupore e fantasia. E nello stesso tempo sono consapevole che tutto questo può ricominciare: basta rimetterli nella mano ed essi riprenderanno vita per narrare nuove storie, generare nuovi sogni, fare dono di nuove emozioni. Ed ogni volta sarà diverso perché così è la vita. Di quella vita della quale loro stessi possono diventare autentici testimoni.

GERMANO POVOLI, educatore presso il centro A.n.f.f.a.s. “ Nuova Casa Serena”, Trento. Diplomato art- counselor presso il Cep di Bassano del Grappa. Socio Sico

domenica 27 giugno 2010

PROGETTO TONEWALL di DAVID JACKSON SOUNDABILITY con il soundbeam


Nei miei vagabondaggi in rete ho “incontrato” il lavoro di David Jackson e ne sono rimasta veramente colpita, soprattutto perché una volta ancora mi confermo come la tecnologia, se usata con spirito di inclusione e non di divisione, può essere veramente una grande risorsa anche in ambito terapeutico…
Scopro che David Jackson è un sassofonista, flautista e che attualmente è uno straordinario performer di musica interattiva. Ha fatto parte della band Van der Graaf Generator e suonato con Peter Gabriel, ma soprattutto è stato per 12 anni un insegnante di matematica e musica per ragazzi con bisogni speciali, prima di iniziare nel 1992 il progetto “Tonewall”. Tonewall è il nome di una idea, di un progetto unico di musica tecnologica interattiva che utilizza uno strumento chiamato Soundbeam e il suo produttore di eco. In poche parole , un sensore proietta nello spazio un fascio di ultrasuoni, i quali, incontrando un ostacolo, rimbalzano indietro verso la sorgente come il sonar di un pipistrello. Gli ultrasuoni incontrando un ostacolo tornano indietro (effetto ECO). I movimenti corporei, compiuti all'interno del raggio, vengono intercettati e tradotti in segnali Midi, e quindi in suono, a seconda della direzione e della velocità dell'oggetto in movimento (una mano, un piede, un dito, la testa...). Il Soundbeam nasce a Bristol nel 1984 ad opera del compositore Edward Williams, che sviluppò questo fascio di ultrasuoni ispirato dal Theramin degli anni ’30. Originariamente inteso come un innovativo strumento artistico, nel tempo si è affermato come un efficace strumento terapeutico.
Il lavoro di David Jackson è quello di creare musica con gruppi di persone a diversi livelli di abilità ed anche con profonde disabilità, e di unirli insieme sul palco. In 16 anni di lavoro Jackson ha saputo far suonare musicisti non professionisti e disabili in alcuni dei più grandi festival di musica nel mondo. Integrazione ed inclusione attraverso l’abilità musicale è la filosofia alla base di questo lavoro. Mi sembra proprio che Tonewall sia una opportunità ideale per adulti e bambini con difficoltà fisiche e di apprendimento per vivere un’esperienza di gioia, soddisfazione e condivisione che il creare insieme musica può sicuramente dare.
Per saperne di più: www.jaxontonewall.com o guardate i video su youtube!
Silvia Adiutori

lunedì 7 giugno 2010

I FANTASTICI CINQUE


E così … scopro di cosa e come sono fatte le storie!
Le storie raccontate, ascoltate e ri-raccontate. Dai miti alle telenovela, passando per racconti e romanzi…, favole e fiabe o novelle.
Ma anche quelle ricordate, filmate, interpretate, disegnate …!! Soprattutto sognate!!!
Sono fatte dai fantastici 5. Attori protagonisti delle nostre uniche vite- vite uniche: I nostri organi di senso.
Parlo proprio della vista, del nostro udito, dell’olfatto, il tatto e il gusto, senza il quale tutto avrebbe lo stesso unico ripetitivo colore.
Siamo soliti pensare ai nostri occhi, al nostro udito, al nostro naso, bocca e lingua e alle nostre mani come organi o parti anatomiche più o meno funzionanti che “sentono” e/o rico-noscono che “fanno o che non fanno” ecc…. ma, proviamo a considerarli nella loro funzione esistenziale.
Per esempio, una mano che tocca in senso anatomico, muscolare e nervoso diventa oggetto, struttura. Ma se sposto l’attenzione al vissuto cioè a quello che la mano tocca, o lascia e al come, sfiorando, tirando, aggrappando/accarezzando ecc.., la mano diventa soggetto del sentire, e può creare, creare e raccontare. Da questo, quindi, possiamo affermare che non sono le immagini che vedo, i suoni e gli odori che sento, ad evocare ... sono i miei occhi e le mie orecchie, il mio naso, sono io che evoco … E se mi permetto di esprimerlo, nei diversi modi in cui mi rendo possibile farlo, creo. Creo arte.
E cosi …. L’occhio attento vide il naso, rise sorpreso e soddisfatto di sé, continuò il suo cammino ed incontrò il gusto…, un gusto dolce, di vaniglia e decise di sfiorare la mano timidamente, in attesa di risposta, ne sentì l’odore: inebriante. Si chiuse e riposò sereno.
Anna Maria

lunedì 3 maggio 2010

IL VALORE DEL SILENZIO


IL VALORE DEL SILENZIO

Nella nostra società l’assedio verbale è la norma, le parole sono deliberatamente usate per confutare, ingannare, illudere, nascondere. Le persone si sovrapppongono quando parlano, senza ascoltarsi - pensiamo ai talk show in Tv- e così il frastuono privo di senso allontana l’attenzione dalla verità e da ciò che è importante.
Daniel Baremboim, grande direttore d’orchestra dice in un suo libro: ’L’essere umano può chiudere gli occhi, se vuole.. e inoltre ha bisogno di luce per vedere. Invece non può chiudere le orecchie...il suono ha una forza di penetrazione fisica nella quale l’essere umano non ha alcun controllo. ‘
Tutti , per difenderci, abbiamo imparato a non ascoltare, anche se c’è voce, suono, a tagliarci fuori.
Questa riflessione che mi piace condividere con voi, è dedicata al silenzio, al quale ormai siamo così poco abituati che rischiamo di provare angoscia se stiamo in un luogo dove i rumori e le voci abituali non ci sono. In realtà ilsilenzio non esiste, ma esiste la possibilità di raccogliersi in un altro tipo di ascolto.
Chi come noi lavora in arteterapia avrà sperimentato come nel ‘silenzio’ della parola succedano cose. Cose meravigliose, angosciose, inaspettate. Forse le più importanti all’interno di tutto il processo. Io sono musicoteraputa e lavoro con i suoni, la musica. Raccolgo le emozioni più grandi, le mie e degli altri, nei momenti di sospensione della musica, quando quel silenzio si abita di sensazioni, di una tensione che porta a qualcosa. Un silenzio fertile, dove poi la parola può avere un senso.
Lavoro anche con i pazienti dementi, e sto imparando da loro il valore del silenzio: la parola non affiora più, perché le sfere cognitive son compromesse, quando parlano si confondono e ti mandano in confusione. Ma quando ascoltiamo la musica e la facciamo, il verbale va sullo sfondo e dopo, in quel silezio vibrante di noi, succede qualcosa, che le parole non possono descrivere. Bisogna provarlo.
“ Tutte le arti, anche il silenzio hanno una grammatica. Ma prima bisogna sintonizzarsi sull’anima: con il corpo, con lo sgaurdo, con il cuore” (Marcel Marceau)
Silvia Ragni

lunedì 12 aprile 2010

“La mia fotografa preferita-incontro interiore con Diane Arbus”



Mi ricordo quando qualche anno fa vidi per la prima volta le foto scattate da Diane Arbus, una delle piu' interessanti fotografe del novecento, in grado di rappresentare un'America come pochi erano stati in grado di vederla. Nelle sue foto traspare un mondo fatto di persone che solitamente sono al di fuori della normale espressione della bellezza, sottolineando ancora una volta come la fotografia possa rendere bello ed emozionante anche cio' che non e' definibile generalmente esteticamente piacevole. Rimasi sconcertata, un sentimento strano, che mi poneva in bilico tra l’euforia e la disperazione. Ricordo che è stata proprio una sensazione fisica, un attorcigliarsi dello stomaco, uno sgranarsi degli occhi. Che vi devo dire … non so spiegare esattamente perché, ma le immagini della Arbus toccano in me qualcosa di profondo, legato penso, proprio ad una intima condivisione di un punto di vista, di una scelta di dove e cosa guardare.
Nel film “Fur” di Steven Shainberg dedicato al racconto romanzato della sua esperienza umana e artistica, la Arbus è descritta come una donna rinchiusa fino a quel momento nelle consuetudini dell'epoca che la volevano come una donna che dava ancora il meglio di sè tra le mura domestiche, all’ombra del marito, importante pubblicitario. E sara' un incontro un po' surreale con un uomo affetto da una malattia che lo costringe a vivere ricoperto di peli su tutto il corpo e che aveva vissuto per questo in un circo, a risvegliare la vera Diane. Inizia a fotografare questo strano uomo e i suoi altrettanto strani amici del circo, rivelandone nelle immagini la poesia e la bellezza.

Oggi mi rendo conto che molto del lavoro che ho scelto ha a che fare proprio con una questione “fotografica”, cioè di inquadratura e di sguardo sul mondo. L’interesse per ciò che non risulta rassicurante, per quello che è diverso, quantomeno da me, per quello che non è sempre chiaro, per le identità misteriose. Mi piace questo straniamento nel guardare volti sproporzionati, espressioni e smorfie antiestetiche, mi piace pensare che siamo tutti un po’ circensi, poiché quello che mi turba non è tanto la stranezza quanto l’ostentazione del concetto di normalità!!!

Silvia Adiutori

mercoledì 31 marzo 2010

L'ELEGANZA DEL RICCIO: UNA STORIA DI COLORI, PAROLE E VIDEO


L’eleganza del riccio: una storia di colori, parole e video.
P. era un ragazzo per me indecifrabile lo conoscevo poco, forse anche per questo.. Parlava una lingua che non capivo. Sembrava vivere in un mondo tutto suo. Intuivo soltanto la sua malinconia, il suo dolore e la sua rabbia ma non capivo altro. Non sorrideva spesso, o per lo meno quando lo incontravo. Pensavo di stargli antipatica.
Quando eravamo nella stessa stanza avevo l’impressione che non fosse lì, che non fosse emotivamente presente. Mi inquietava e spaventava la sua irraggiungibilità.
Oggi è trascorso un po’ di tempo, P. non c’è più. Resta un tesoro, che ha lasciato e che era per me sconosciuto. Un tesoro fatto di colori, di parole, di video.
P. era un’artista.
Oggi, solo oggi, sto scoprendo con curiosità le opere che ha lasciato. Probabilmente se non avessi avuto tra le mani le sue opere, se non avessi avuto l’opportunità di conoscerlo attraverso esse mi sarebbe sfuggita la sua sensibilità, il suo prezioso mondo emotivo che ha trasferito nelle poesie, nei quadri e nei collage.
È stato un lampo che mi è balzato agli occhi. Attraverso la sua arte si è fatto conoscere, si è esposto, ha messo il naso fuori dal guscio.
Guardando le sue opere, raccolte in un libro, emozioni contrastanti mi giungono: lo stupore verso tutti quei colori e verso quelle parole così soffici e la consapevolezza che attraverso l’arte ha saputo raccontarsi anche a me che non lo conoscevo.
Oggi P. non c’è più ma quello che ha lasciato è un grande messaggio: l’arte ci può far uscire dal nostro guscio e comunicare con gli altri.

Gaia Miletic

lunedì 22 marzo 2010

Il sogno di un clown


Mi sono chiesto spesso, quando sono in attesa di dare inizio ad una seduta di clownterapia con alcuni ospiti disabili del centro A.n.f.f.a.s “ Nuova Casa Serena” di Trento, presso il quale lavoro da 20 anni, quale può essere oggi il ruolo del clown, quale può essere la sua funzione in una società e in una realtà così tecnologica, dove sempre meno c’è spazio per la fantasia, per i sogni, per la creatività e l’autenticità. Guardandomi allo specchio scorgo quel piccolo naso rosso e in un attimo la mia mente e il mio cuore mi riportano lontano, a quando bambino di tre anni sono stato in ospedale per tre mesi a causa di problemi polmonari. Eravamo agli inizi degli anni ’70 e in quel periodo non era permesso ai genitori di stare accanto ai loro figli se non per il tempo necessario delle visite: circa un’ora ogni giorno. Risento la solitudine e la paura di quei momenti, assieme ad un odore acre di ospedale che mai più mi ha abbandonato.
Altre immagini, altre schegge di ricordi si susseguono. Rivedo il matto del quartiere, famoso per i suoi comportamenti inusuali per noi bambini, che tanta paura ci faceva: tutti lo evitavamo e lui proseguiva imperterrito nella sua pazzia, forse ultima difesa di fronte ad una solitudine, ad una esclusione troppo forte da sopportare. Rivedo il giovane drogato che rovistava nei rifiuti in cerca di un po’ di cibo e che poi seppi essersi suicidato in carcere per la troppa fatica di vivere. Ripenso a quel padre che perse nel giro di tre anni la moglie e i due figli in incidenti stradali e che seppe affrontare con dignità un così devastante dolore per poi, beffa del destino, morire cinque anni dopo per una malattia inesorabile proprio quando la sua esistenza si stava riaprendo alla speranza. Rivedo un uomo con il quale ho percorso migliaia di chilometri lungo i sentieri delle montagne della città di Trento e oggi, dopo una vita spesa per il lavoro e la famiglia, inchiodato su una carrozzina in una casa di riposo, chiuso nei suoi ricordi e in una speranza che mai più si potrà avverare: ritornare in piedi e percorrere le vecchie strade, là dove le vette sembrano toccare il cielo.
Volgo il mio sguardo verso i ragazzi disabili che mi stanno aspettando, scorgo i loro volti, la loro attesa, le loro labbra che si schiudono in un sorriso e altre immagini, altri quadri di vita riempiono il mio cuore, rimescolano la mia anima. Vedo dei piccoli bambini chiusi in una stanza d’ospedale, incerti sul loro futuro, con a fianco i loro genitori con lo sguardo perso nel vuoto, stretti in un dolore talmente inesprimibile che le parole sarebbero ben vano conforto. Ripenso ai malati di mente la cui esistenza è trascorsa fra le mura di un manicomio e provo pietà, vergogna per tutto ciò che è stato. E poi vedo mille volti, mille schegge di vita: bambini scarnificati dalla fame, violentati dalla guerra; donne perse, violate, spogliate di ogni dignità; vecchi che con lo sguardo trapassano il presente per aprirsi verso un orizzonte non ancora ben definito.
Scopro che la vita mi ha dato tanto, che la salute, il benessere e la stabilità affettiva sono doni, sono perle di ineguagliabile valore. E di fronte a tutto questo dolore mi scopro un privilegiato. Allora quel piccolo naso rosso, questo mio insignificante essere clown è solo uno strumento per ringraziare la vita per ciò che mi ha dato, è solo un offrire, a chi questi privilegi non li ha avuti, allegria e gioia ma soprattutto amicizia, accettazione, un mezzo per non sentirsi esclusi, abbandonati. Scopri che non ci vuole tanto per stringere relazioni e amicizie, che non ci vuole tanto per far sentire gli altri meno soli e donare nel contempo benessere e serenità. Capisci che il mondo sarebbe più bello se in ogni famiglia, in ogni città, in ogni nazione ci fosse un clown: sicuramente ci sarebbe meno violenza, ci sarebbero meno guerre, meno gente sola, abbandonata e priva di speranza. E dal mio cuore nasce un grande sogno:

“ Io ho un sogno:
che le lacrime versate dai nostri occhi divengano un giorno delle risate che scaldino i nostri cuori

che le contese che ci allontanano diventino profondi abbracci che uniscano le nostre anime

che i mille sorrisi che ci possiamo scambiare diventino un vasto prato di rossi papaveri che allieta la nostra vita

che ogni clown che incontriamo sul nostro cammino diventi un vero compagno, un amico, un sostegno alla nostra esistenza, un raggio di sole che illumina le nuvole che a volte offuscano il nostro spirito

Io ho un sogno:
che il mondo diventi un immenso sorriso di pace, di amore e di fratellanza!”

GERMANO POVOLI

lunedì 15 marzo 2010

Cortometraggi sulla vita sessuale degli animali by Isabella Rossellini


Io non li conoscevo, forse voi sì, questi meravigliosi cortometraggi scritti e girati da Isabella Rossellini, che illustrano in modo tanto semplice da essere semplicemente geniali la vita sessuale degli animali (non mammiferi) come insetti e pesci. Quello che mi colpisce, oltre la stranezza e la meraviglia delle abitudini sessuali di questi esseri che durante la vita cambiano sesso, si corteggiano e fanno veramente un po’ di tutto per far sopravvivere la specie, è lo stile con cui questi corti sono girati. In scena c’è “solo” Isabella Rossellini che di volta prende le sembianze (aiutata da costumi e sfondi in carta, stoffa e gommapiuma) di uno di questi animaletti raccontando l’avventura dell’accoppiamento.
Che vi devo dire … a parte l’importanza dell’informazione eco-scientifica dell’argomento mi sembra un bellissimo modo, poiché ironico e poetico per affrontare un tema che in qualche modo è ancora un po’ tabù, cioè il sesso, per esempio per parlare con i bambini dell’importanza della vita e della sua conservazione. E guardando questi corti mi viene una voglia irresistibile di provare a fare una cosa simile!!! E a voi?
Per vedere i corti chiamati “Green porno” andate sul sito: http://www.sundancechannel.com/greenporno/ sono in inglese ma forse se ne possono trovare anche alcuni sottotitolati in italiano.

Silvia Adiutori

lunedì 22 febbraio 2010

Inquadrature...



Come in un gioco di specchi, dentro al quale è facile perdere l'orientamento, il senso stabile del posizionamento del corpo nello spazio, sarà capitato a molti di incrociare lo sguardo su un televisore ripreso a sua volta dalla telecamera che ne traduce l'immagine e di perdersi nella prospettiva infinita delle inquadrature una dentro l'altra. È una strana sensazione, terribilmente disorientante, perché lo sguardo non riesce a poggiarsi su nulla di singolare, in quanto ripetizione di se stesso all'infinito, e perché la prospettiva sembra non avere un orizzonte confinato. Un buco nero, praticamente.
Allora provi a irrigidire il tuo corpo, per non muovere lo sguardo nel tentativo di allungare l'occhio nel profondo senza essere disturbato dal movimento, ma niente. Il vortice ti cattura, serra le fila come un esercito compatto di ricami dentro al quale non puoi scorgere nulla se non la ripetizione di te stesso sempre uguale. E nella piccolezza di quella che sembra essere finalmente l'ultima immagine di te, cerchi un particolare, qualcosa di diverso sul quale soffermarsi e far transitare i pensieri, ma ancora niente. Ti accorgi con rassegnazione che l'ultima non esiste, ce ne è sempre un'altra pronta a sostituire la precedente con beffarda ossessività.
In questo caso, certo, tecnicamente si tratta semplicemente di una declinazione al plurale di una singola inquadratura, di un singolo soggetto che, nel suo ripetersi e rimpicciolirsi nella distanza esponenziale tra l'occhio della telecamera e il televisore, rimane fondamentalmente uguale a se stesso. La prospettiva rimanda alla possibilità infinita di variare qualcosa, ma che solo nella ripetizione forzata riesce a distanziare l'identità ufficiale del primo riflesso.
Anche il movimento, connotato da un ritardo simmetrico tra un riquadro e il successivo, sembra riprodurre questo disorientamento, quasi fosse l'affaticamento muscolare dell'occhio umano trasdotto in quello tecnologico. Identità ripetuta, o coazione a ripetere, come direbbe un grande maestro. Si, perché nell'infinito della ripetizione visiva è forse possibile identificare il vortice delle proprie stereotipie, stigmatizzate ad libitum in modo quasi da infastidire, rendere oltremodo percepibile la noia di se stessi. Detta cosi, questa considerazione un po' sartriana, sembrerebbe tranciare di netto la possibilità che della propria immagine ripetuta ci si possa compiacere, ma non è tanto questo il fulcro del discorso. Bensì il fatto che nella percezione della stereotipia, sia essa piacevole o spiacevole, si apre un varco sulla ricerca della novità. Uno spazio dialogico tra sé e il Me stesso-immagine, come dice il buon Rossi, che, se condotto nella direzione del desiderio da parte di un operatore della relazione d'aiuto, può diventare invece germoglio di nuove prospettive semantiche. Ecco allora che nella ripetizione si fa strada l'eco di una novità, una scintilla che se alimentata può dar vita ad un fuoco di emozioni e sentimenti nascosti dall'immagine stessa.

[…]
Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l'ho pregato, - ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine...
Eugenio Montale

Pierluca Santoro

lunedì 8 febbraio 2010

Wilie il Coyote ed Elisa: dialogo sulla creatività


La Commissione Europea ha dichiarato il 2009 Anno della Creatività e dell’Innovazione “L'Ospite Misterioso”, come lo definisce Salvo Pitruzzella nel suo libro Il Manifesto delle Idee pubblicato dalla Commissione, dice che questo Anno “mira ad accrescere la consapevolezza dell’importanza della creatività e dell’innovazione in quanto competenze chiave per lo sviluppo personale, sociale ed economico”(http://www.create2009-italia.it/). Creatività come innovazione quindi, come qualcosa che genera qualcos’altro di nuovo originale….ma quanto è difficile essere creativi? Chuk Jones che ha creato Wile Coyote dice che per disegnare un coyote “devi averlo dentro di te. E devi tirarlo fuori. Animare significa evocare la vita. Come si fa? Bisogna scoprirla dentro di se”.
Questa affermazione mi ha sempre da un lato affascinato, ma dall’altro lasciato con un senso di vuoto…come faccio a scoprirla? Come si fa ad essere creativi incontrando la vita dentro di se? Parole che suonano come note per il serpente che danza davanti ad una musica ipnotica ma che appena il suono smette torna ad essere serpente che striscia….
Insegno a scuola, una scuola della periferia di Roma, insegnante di sostegno e mi prendendo cura dei ragazzi diversamente (?) abili come insegnante e come danzamovimentoterapeuta. E’ li che mi reco ogni mattina e incontro i ragazzi spesso per lavorare con il corpo, ed in quella realtà, mi è ancora meno chiaro come in situazione di difficoltà si possa cercare la creatività incontrando la vita dentro. Cosa vorrà dire? Qual è il senso di quelle parole?
Era poco prima di Natale e preparavamo l’albero addobbato con palline e strisce colorate, proponemmo ai ragazzi di ritagliare cartoncini a forma di palline per scriverci sopra un desiderio. Il solito regalo da chiedere a Babbo Natale forse, cellulari, play station….ed invece proprio li (non era la prima volta con loro per la verità) leggere quelle palline, dar voce a qui desideri diventava dare voce alla vita dentro che si rivela. Una su tutte Elisa (la chiamo così) in carrozzina da sempre scrive : vorrei correre insieme agli altri!. Negli occhi di tutti una luce, il cuore si stringe, la voce di un compagno le dice “ti voglio bene”, va verso di lei e l’abbraccia come si può abbracciare una ragazza in carrozzina, un corpo che si adatta ad un altro trovando una modalità creativa per superare un ostacolo che poneva una distanza, che non dava forma a quelle parole, a quel sentimento.
E proprio quell’adattarsi, quel cercare di dare forma a “ti voglio bene” mi da il senso dell’incontrare la vita dentro di se, dare una forma creativa ad una emozione che vive dentro.
Chissà se Wile Coyote ed Elisa si ìncontrassero cosa si direbbero, starebbero a raccontarsi di com’è correre sempre o non poterlo fare mai di cosa si può vedere stando fermi o cosa non si vede inseguendo sempre qualcosa che sta davanti a noi. Forse non si tratta troppo di inseguire qualcosa, che sia uccello o miraggio di illuminazione, o forse è proprio un miraggio quello a volte ci fa perdere di vista quello che si cerca.
Essere creativi mi chiedo, condurre una vita sana come Winnicott indicava, forse significa iniziare a dare valore ai gesti, alle emozioni che generano forme, e a cercare di viverla nella vita di tutti i giorni riconoscendola.
E’ quindi possibile esercitare questa parte creativa, darle spazio, dare forma a qualcosa che ci appartiene e che sta dentro (ora mi è più chiaro il senso).
Il difficile sta nel liberarla.
Come fare?

Fernando Battista

lunedì 1 febbraio 2010

Cartoni animati e disabilità


Tempo fa vidi un cartone animato molto interessante e, incuriosita, mi sono un pò documentata su internet… le notizie che ho trovato mi sono sembrate veramente un bell’esempio, a mio parere, di un modo ironico e accattivante di parlare della disabilità.
Steve Box e Nick Park, per capirci gli stessi autori del più famoso cartone animato “Wallace & Gromit”, hanno prodotto una serie a cartoni con sei personaggi differenti dai soliti: infatti sono tutti disabili fisici. I sei simpatici animali sono ispirati a persone vere e sono state doppiati da veri disabili. Sul sito www.creaturediscomforts.org, cliccando sul disegno di ogni personaggio-animaletto si apre la presentazione della persona in carne ed ossa a cui il personaggio è stato ispirato e che lo ha doppiato , con la sua foto e il racconto della propria situazione di disabilità. La serie è realizzata con la tecnica dello stop-motion, è ricca di humor, ed ha come protagonisti il riccio Peg e la lumaca Spud, ambedue su una sedia a rotelle, la tartaruga Tim con le stampelle, il bassotto Flash, con un carrellino al posto delle gambe posteriori, il cane Brian privo degli arti posteriori, l’insetto Slim che si appoggia ad un bastone. Ho anche letto che Nick Park e il suo team della Aardman Animation hanno lavorato in collaborazione con l’istituto di beneficienza Leonard Cheshire Disability (www.lcdisability.org) organizzazione inglese che lavora per l’assistenza ai disabili e la lotta ai pregiudizi sulla disabilità, per costruire una campagna di informazione, indirizzata ai bambini (ma servirà anche agli adulti) sui portatori di handicap. Per vedere i video della campagna basta iscriversi sul sito di Creature Discomforts. Mi sembra veramente un bel modo per affrontare un tema delicato e promuovere conoscenza e impegno senza dimenticarsi di sorridere! No?

Silvia Adiutori

La mediazione artistica nella relazione d'aiuto

martedì 26 gennaio 2010

La creatività come cura di sé


Un giorno prima di Natale, su un cartellone pubblicitario del solito “23“, percorrendo la stessa, noiosa, trafficata, anzi, trafficatissima strada, leggo : “Creare regali è un mestiere. Fare regali e un arte”. Mi colpisce! Mi chiedo, ma è proprio vero che l’arte si fa? E come posso rendere il mio lavoro, Arte?

Io vengo da una famiglia di musicisti, artisti, da parte di mio padre! Lui, piccolo piccolo di statura, suonicchiava, accompagnando il fratello, l’artista, con il contrabbasso, strumento alto e imponente, buffo No?
La mia nonna aveva studiato musica; all’epoca nelle famiglie bene, le donne studiavano musica, pianoforte per l’esattezza. Lei però era riuscita a fare della sua passione, un lavoro; infatti insegnava! E non solo ai nipoti e ai figli !! Due, dei cinque, suonavano “artisticamente“, pianoforte e contrabbasso. Classica, lirica, jazz… E anche loro erano riusciti a trasformare la loro passione in mestiere !! O in arte? Io sono cresciuta con la loro musica nelle orecchie e nel cuore. Mi manca molto, quella musica. Ma sono stonata come una campana e non ha mai voluto imparare a suonare. Peccato!
Mia madre invece dipingeva, suonava anche lei il piano, sempre per lo stesso motivo di prima. Quando morì, il primo oggetto che mio padre diede via, fu proprio il pianoforte!! Quello che ricordo di più di lei però sono i quadri che dipingeva per hobby , quando aveva tempo! Dalla natura morta alla follia di Orlando, fatto con la china. Tanti fiori e paesaggi, colori cupi ma intensi. Non conservo più nemmeno la tavolozza. Peccato! I quadri si, uno in particolare mi piace molto e l’ho portato con me!

Di me dicono che sono una persona molto creativa. Penso che un oggetto possa avere tante storie…. E così metto insieme, sposto, cambio l’ordine…mi piacciono i colori, ma anche il bianco e il nero. Quando ero una ragazzina, poco più dell’età di mia figlia, venivo già apprezzata per lo stile e il gusto che ho sempre curato come qualcosa di prezioso! Ero e sono molto attenta ai dettagli e cerco di creare, nell’ambiente in cui mi muovo, un’atmosfera accogliente e calda. Spesso ci riesco. Ma non sono un’artista!!! Eppure qualcuno mi dice di si’.!!!! Beh, dimenticavo, mia madre sapeva anche cucire e, da uno straccetto qualsiasi, riusciva a fare dei vestiti bellissimi!! Era un’artista?
Mi chiedo se le creazioni “artistiche“, dalla musica al disegno, alla scultura, alla scrittura..ecc hanno di per sé valore artistico.
Mi rivedo nella relazione con l’altro e mi accorgo che il mio interesse non è tanto verso quello che dice o che fa, piuttosto si muove verso il significato, meglio, il senso di quello che dice o fà che cerco e rivelo insieme all’altro. Tanto più sono aperta ad evocare tanto più in grado di accompagnare……come uno splendido brano musicale !
Sono un’artista, creo arte o faccio del mio lavoro e della mia vita occasioni per esprimermi in modo creativo? Voi cosa ne pensate?

Anna Maria Acocella